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Mimesia | Alla voce 8 marzo
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Alla voce 8 marzo

Alla voce 8 marzo

Ricordo con emozione gli 8 marzo di quando avevo vent’anni. A Milano, ho sempre abitato sul Naviglio Grande, quando era un vecchio quartiere popolare di artigiani panettieri e merciaie, riparatori di biciclette e fruttivendole, la lingua era il dialetto milanese e il tram 19 lo attraversava tutto, lento e sferragliante.

Uscivo da casa per salire sul tram alla fermata del vicolo dei Bugandai, proprio davanti alla farmacia dove il vecchio farmacista le prime volte che gli esibii la ricetta per la pillola quasi mi cacciò fuori in malo modo. Il 19 mi portava dritto in piazza Duomo, dove di solito – o poco distante, in largo Cairoli intorno alle mura del Castello – ci davamo appuntamento. In migliaia. Ed eravamo davvero una massa colorata e un coacervo di energie in sboccio, allegre e gioiose, canterine e ballerine. Avevamo da poco scoperto la gioia di ritrovarci in tante – la gavetta e la dimestichezza con lo scendere in piazza l’avevamo fatta con le manifestazioni studentesche – ma qui eravamo solo noi, libere felici primaverili. Era davvero un inizio. E lo sapevamo.

Un po’ turbava quella felice spensieratezza il fatto di aver imparato da poco che l’8 marzo in realtà era una data tristissima, tante operaie bruciate vive in uno scantinato newyorchese dal padrone sfruttatore: un sentore della scoperta imminente di tutte le atrocità commesse da generazioni e generazioni sui corpi delle donne, corpi come i nostri che appena cominciavamo a scoprire nelle loro potenzialità. Forte era la tentazione di dire ok, è roba passata, dell’Udi e delle partigiane, ora ci siamo noi, la storia ricomincia da capo e la facciamo ricominciare danzando tra le rotaie dei tram, in mezzo al traffico che si fermava per lasciarci passare, ai passanti sconcertati e sorridenti. Un momento magico, un inizio, una primavera nel senso più naturale e cosmico possibile. Avete presente la pelle delle neonate/i pochi giorni dopo la nascita? Perfetta, senza nessun segno, liscia, soda, da mangiare come la frutta maturata al sole e non gonfiata e lucidata artificialmente.

Prepararmi per la manifestazione dell’8 marzo era un vero rituale di primavera. Per la prima volta indossavo vestiti leggeri, via maglioni e giacche pesanti e stivali, ora mocassini o zoccoli, gonnelline colorate e leggere, magari la giacca di morbido camoscio, una borsa a tracolla e i capelli selvaggi al vento. E via, a incontrare le altre, a specchiarci negli occhi gioiosi delle altre, finestre luccicanti di emozione e a gridare alla città che eravamo tornate: Tremate tremate le Streghe son tornate … Queste sono le immagini e le sensazioni che si accendono in me alla voce 8 marzo: un periodo felice, durato alcuni anni, dello stesso colore dell’erba verde di aprile, dei mandorli fioriti alla fine di febbraio, del profumo pungente e inquietante delle mimose.

Adesso che sono entrata nei miei anni 70 e nessuna sembra più ricordare da dove siamo partite, nessuna più racconta alle figlie e alle nipoti di quegli 8 marzo, travolte dalla spirale impazzita del tempo e da un eccesso di sangue, morti e ingiustizie e da una memoria cortissima e distratta. che non ricorda nemmeno cosa è successo ieri.

Luciana Percovich

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