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Restiamo Umani

Restiamo Umani

Sono un’assistente sociale. Sono non faccio. Per più di dieci anni, ad inizio carriera, mi sono occupata di minori in cattività, sull’intero territorio della media e alta costa tirrenica, entroterra compreso.

Per molti anni gli accadimenti di questo decennio hanno reso amaro, quasi un lusso anche il più innocente dei sorrisi con i miei tre figli, allora piccolissimi.

Bambini e bambine maltrattati e abusati, li ho nel cuore e nella mente. Ancora oggi, a distanza di venti anni, ne scrivo con un misto di rabbia, dolore e rispetto, tanto rispetto per quanto li ho visti patire. Anch’ io ho, devo dire, ho patito con e per loro.

Giuliano, undici anni, tante ossa tenute insieme da un po’di carne, e gambe lunghe e magre, gli occhi scuri infossati. Un giorno arriva al Servizio con la sorella Rosa, poco più grande di lui. Ha una maglietta gialla e un pantaloncino verde. Roba da mercatino, ma pulita e ben stirata. I capelli rasati ai lati e lasciati lunghi sulla fronte, con un po’di gel, come ancora adesso fanno i ragazzi. La mascella contratta dalla paura e forse dal coraggio. Sono determinati. Gli hanno detto che qui ci sono le Assistenti sociali. Devono parlarci. Aspettano un po’, seduti su quelle sedie di ferro smaltate di bianco, tipiche degli ambulatori, che mani nervose hanno tormentato ai lati. Giuliano, le piccole spalle incassate, ad undici anni protegge Rosa, che ne ha quindici. Quando entrano è per denunciare il padre alcolista e violento che tormenta la madre e naturalmente anche loro.
La notizia della loro venuta al Servizio Sociale si diffonde. Nel paese si sa tutto, e anche il padre viene informato. Quei figli ingrati lo hanno tradito. Sono andati a raccontare quello che succede a casa.
Una settimana dopo, di notte, Giuliano viene svegliato dal fumo, la casa ne è inondata.
Il padre nottetempo, li aveva chiusi dentro e aveva appiccato fuoco. La vecchia casa di campagna, tutto quello che avevano.
Quando siamo andate lì, il tetto sfondato ancora fumava, loro erano fuori, inebetiti guardavano la loro casa andare in fumo. Terrorizzati che con le loro cose andasse in fumo anche la ribellione ad un destino già scritto. In quella fredda mattina di novembre, con addosso delle coperte di lana date dai vicini, Giuliano e Rosa, stretti l’uno all’altro cercavano, nell’affetto che li univa, e nello sguardo che dolorosamente ci rivolgevano, di dare un senso alla loro vita e una possibilità di salvezza da tanto male.
I vicini caritatevoli. I vicini che sapevano tutto, da sempre. I vicini che sentivano le urla. Per i quali il padre in fondo, quando non beveva, era un brav’uomo.
E noi. Le assistenti sociali, perché da subito non avevamo allontanato i ragazzi? Perché non li avevamo protetti a sufficienza? Ne avevamo parlato e avevamo convenuto che era meglio evitargli il trauma dell’Istituto.. .ma allora perché non li avevamo portati a casa nostra, come tante altre volte, in circostanze simili, avevamo fatto, rischiando grosso con i nostri dirigenti? La stanchezza, l’esposizione a tanta disperazione che sembrava far convergere tanti rivoli di sofferenza nella vita delle ragazze che allora eravamo, e impattare pesantemente, ci aveva sopraffatte. Così ci siamo rifugiate nella pedissequa osservanza della norma. Del resto era vero che non si poteva. Non si può. Non è professionale. Ci sono le garanzie e i vincoli per il maltrattante… com’è più giusto infrangere le regole e agire da esseri umani con gli esseri umani!
In quel periodo non c’era casupola o abitato, dalla montagna al mare, che non ci aveva viste accorate partecipi ai drammi che vi si svolgevano… Luoghi remoti alla stessa civiltà, ma a volte anche case lussuose, impensabili crogioli del male. Ma più spesso il male si innestava nella povertà, in un intreccio perverso e pervicace, difficile da sradicare. Sindaci, volontari, preti, ci tempestavano di segnalazioni e noi correvamo, ingenue e appassionate, in difesa di chi non ha voce. Ma che potevamo fare? Le nostre erano armi spuntate.
Gli Enti locali e il sistema sanità, erano (e sono) poco inclusivi, piuttosto orientati a delegare, poco inclini ad intervenire seriamente nel Sociale, se non con qualche regalia…La costruzione di un “sistema di protezione sociale” era di la da venire, e a tutt’oggi non è pervenuto. Anzi.

Quante cose vedono gli occhi delle assistenti sociali…ce n’è abbastanza da desiderare, nei momenti più bui, di scappare via, di difendersi dal morso della cattiveria che lambisce e travolge i più fragili.

Mi sentivo, come una madre, responsabile di dover prevenire, arginare, contrastare, questo fiume di dolore. La mia stessa conformazione, piccola di statura, robusta, con un grande seno e spalle larghe, era fatta per l’abbraccio e per portare la croce.
Con Giuliano e Rosa …Dopo naturalmente abbiamo fatto quello che si doveva fare, dopo.
Intanto avevano visto la loro casa andare in fumo e percepito chiaramente la volontà omicida del padre, e con questo avrebbero dovuto fare i conti. Sempre.
Giuliano e Rosa e le vite dei tanti, tanti, Giuliano e Rosa che ho incontrato si sono intersecate con le mia vicenda umana, cambiandola. Mi hanno insegnato la difficile arte della resilienza.
Ogni piccola espressione e ruga del mio viso di sessantatreenne ha un nome, un indirizzo, un affanno. Ogni sorriso contiene il ricordo di ciò che di buono ho dato e ricevuto.
Restiamo umani.

Loredana Nigri 

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