07 Set Il mare nel cuore
Ognuno dovrebbe avere una finestra da cui ascoltare la risacca del mare
Ognuno dovrebbe avere una finestra da cui ascoltare la risacca del mare
Esterno sera. Centro città. Caldo estivo. Si boccheggia ancora alle otto di sera. Non ho voglia di camminare ma la serata è piacevole e i monumenti dipinti di tramonto irresistibili.
Mi portano in un locale (si, ho detto mi portano perché il caldo annulla e offusca la mia voluntas… E forse pure la noluntas!).
Posto molto carino. Mi piace. Ha stile. Affondo su una sedia imbottita bollente e penso: “cielo! Come farò a rialzarmi da qui?” caldo. Caldo solo caldo.
“Cosa vi porto da bere?” Al solerte cameriere mi illumino in un sorriso e con solo quell’immagine che mi brilla negli occhi dichiaro: “per me una coca zero con tantissimo ghiaccio” e sorridente mimo il biccherone.
Qualcosa non va. Lo sguardo del cameriere al di sopra della mascherina si blocca. Mi guarda. Mi fulmina.
Mi sento come in un musical di Broadway il silenzio cala nel locale, si spengono le luci e resto io illuminata solo dall’occhio di bue. In lontananza sento il cameriere dire qualcosa sul fatto che loro sono il più bio dei ristoranti bio e che no, la coca zero non ce l’hanno e altre frasi che perdo inghiottita dal velluto bollente della mia sedia finto impero. Riesco a balbettare un “mi dispiace di solito non la chiedo, è il caldo a parlare per me..” mi guardo intorno e comprendo finalmente dove sono e quanto la mia richiesta fosse stata assolutamente fuori luogo. Abbasso gli occhi scusandomi mi sento dire: “no, no, ma sono perfettamente d’accordo con te, no, si, certo, bio, naturale. Senza additivi, bio, certo. Bio”
La serata può solo migliorare. Mi dico, se solo alla fine riuscirò a uscire da questa sedia… Velluto. Caldo velluto. Senza coca. Senza ghiaccio. Forse non è bio.
Può solo migliorare
Se ponessimo la stessa caparbietà che dimostriamo nel mantenere le nostre piccole e stolte abitudini (pic-nic con sedie e plastica, vociare bieco, indifferenza totale al luogo in cui siamo..etc), nell’onorare invece la perfezione della Natura, saremmo gli esseri più felici e davvero i più intelligenti di tutto il pianeta.
Il bosco è un tempio sacro.
Basterebbe tacere e ascoltarne la lezione.
Immobile.
Alacre. Lungimirante. Accogliente. Autosufficiente. Perfetto!
Possiamo dire la stessa cosa di noi?
Le mie percezioni sono come quelle dei gatti. O forse degli orsi, non saprei. Primitive. Ecco è questa la definizione giusta. Le decisioni passano dal mio stomaco, se saltellano troppo in testa allora non sono affatto buone. Quindi con l’esperienza ho imparato a seguire l’istinto contro il quale mi sono scagliata innumerevoli volte. Abbiamo lunghe discussioni aperte sul tavolo, il mio istinto ed io: e se avessi fatto, e se non avessi detto.. Lui caparbio, io testarda, lui accondiscendente e a tratti frivolo, io rigida e sofisticata.
Le parole e le considerazioni rotolano sul tavolo quasi potessi sentirne il rumore del ping pong per poi giungere alla considerazione finale che “non avrei potuto fare diversamente”. Esatto. Palla al centro. Le cose sono come sono. Vanno come vanno. Decido ciò che sento e se l’alternativa è di snaturarmi per pietire grammi di considerazione, il mio vessillo si stende al sole dell’integrità del mio spirito. Giammai! Pare gridare in barba ai dettami sociali e alle apparenze erudite degli esperti in materia, e se il prezzo da pagare è restare ancora nuovamente sola. E sia!
Alla fine dei ragionamenti, del resto, la mia spasmodica necessità di seguire l’istinto in realtà funziona da acceleratore di relazioni. Intendo dire che chi non vuole stare fa prima a trovare la via di fuga che altrimenti gli sarebbe costata tempo, fatica e giri inutili di parole. Una perfetta cameriera, servo su un piatto d’argento rapide soluzioni. Un direttore d’orchestra improvvisato che resta ad osservare sornionamente, ma non senza rammarico, la rapidità del questuante che veloce come un fulmine non solo intravede, ma infila spedito la via di fuga. Salvo poi ovviamente, restare ad adorarmi da lontano quasi fossi divenuta una eterea musa incorporea e angelicata.
Ciò resta. Ciò ne resta del genere umano. Mi consolo pensando al risparmio di tempo e energie.
E l’istinto, di sottecchi, ma fa l’occhiolino. Intensa storia d’amore la nostra.
Si chiude un ciclo. Sto lasciando indietro persone, cose, pezzi di me, sentimenti. Il taglio mi è costato lacrime e sangue, ma una volta reciso assaporo a tratti la sensazione di libertà e leggerezza. La ferita è viva, ma diventerà una nuova cicatrice su cui passerò le dita ricordandone il fuoco.
Sollievo.
Ecco, questa fine mi porta sollievo e guardo stupita un nuovo germoglio di consapevolezza: mai più mendicare amore!
So chi sono, dove sono e cosa mi si chiede.
Altro non importa.
Altro non mi serve.
Chi lascia è andato e io ho una strada da seguire. I miei amori li porto nel cuore anche chi non sa di esserci starà con me per tutte le strade che attraverserò.
Schiena dritta, piedi scalzi e bisaccia in spalla come un milione di anni fa. Semplicemente sola in viaggio sui miei crinali riscoprendo le tane nei boschi dei miei passati. Questo adesso sarà felicità!
28 luglio 2018
La pioggia sferza il corpo, le gocce di pioggia pungono la pelle e non si smette di tremare . Fradicia fin nel midollo da anni o ere di soprusi verbali. Manipolazioni sottili dietro i sorrisi dei convenevoli. Un buongiorno non sai mai cosa riserva, l’umiliazione è sempre dietro l’angolo e con l’esperienza impari che ciò che ferisce non è mai: “hai sbagliato” ciò che taglia è accorgersi che quelle stesse sillabe avvolgono una categoria di me stessa che si svela ma che non mi appartiene. Si vestono di vocali e di consonanti e dentro puzzano come carne putrida che si deforma e si lascia intravedere. “sei una stupida. Che cretina! Sei solo una stronza. Non capisci niente. Mi sfidi? Ti schiaccio. Mi rispondi? Ti picchio. Io decido su di te. Per te. Ciò che vuoi non vale niente. Ieri e sempre. Sei una pessima madre. Non sei capace di amare nemmeno i tuoi figli” e il vomito rotola sulle piastrelle del pavimento sulla pelle che conosce bene quanto profondamente la lama possa continuare a scavare. E la mente si annebbia e vacillo e dubito. Forse hanno ragione. Certo ho le mie responsabilità, certo… Eppure un colpo di coda schianta dentro di me lo sento che si risveglia la mia bestia ferita. Un drago che spalanca le fauci, un ghepardo che ruggisce ferito. No! No, non è vero. Urlo senza voce, ha il sapore salato delle lacrime il mio schianto. Sorda senza più tempo, senza forze, senza voce con le orecchie che fischiano mentre ancora e ancora le parole spurgano putride e insensibili. Sono uno sfogo. Il loro sfogo per la loro vita, le loro frustrazioni. E con tutta la forza che mi resta allontano e respingo quel magma, ma sono sfinita. Confusa, stanca, sconfitta. Una discussione dicono. È solo una discussione, sei sempre esagerata. Sono cose che si dicono.
No. Non sono cose che si dicono.
Distorsioni. Aberrazioni. Forzature. Alterazioni. Deformazioni.
Chi impara a guardare non smette mai di vedere. La trama. Il meccanismo, la filigrana delle vite mi scorre davanti come una pellicola in bianco e nero a velocità doppia. Quasi comico. Quasi mimico. Quasi ironico. Decisamente triste. La trama emerge e non si può smettere di vederla.
Riempire I vuoti con I vuoti fino a sommergere lo spazio tra le persone, a sovraccaricare l’aria, ad asfissiare il movimento e il pensiero. Fino a farlo emergere come un gigante plasmato dal fango della paura a investire le relazioni. I battiti del tempo. Plasmato in anni di parole nutrito col rammarico, con la colpa, la recriminazione, le proiezioni, le aberrazioni dei sogni disillusi dal passaggio delle rughe, delle delusioni, le esperienze. E il fetore annuncia prima ancora che la tempesta si abbatta che il gigante è vivo e maestosamente duttile.
Mi guarda, avvolge, sento le spire accarezzarmi sottilmente dalle caviglie. Un pizzico, quasi una scintilla di elettricità. E sale, sinuoso, il gigante si deforma e le parole diventano ogni volta più dure, eppure consuete. La ripetizione assicura il nutrimento al pensiero. Lo radica, lo concretizza. Gli dà forma e vita.
E non resta spazio. Non resta vita, non resta amore. Resto, io immobile e incredula ma in questo tempo nuovamente concreta e rassicurata da me stessa eppure tremula.
E si ricomincia. Mi accuccio tra le lenzuola avvolta dal buio che mi culla e mi nasconde. Invisibile agli sguardi. Desidero sparire, svanire dimenticare ed essere dimenticata.
E abbracciata. Compresa. Protetta. La lezione sta nella ferita e nel guardare la realtà negli occhi, ma a me stessa resto solo io.
Nella lentezza di questa mattina ho rallentato un gesto consueto. Davanti allo specchio ho legato i capelli e ho messo la crema sul viso. Lo faccio ogni mattina da almeno 30 anni. Un gesto semplice e ripetuto. Eppure dentro di me e tra le mie mani ho trovato il dono del silenzio, della lentezza del primo mattino quando i gesti sono parole e riempio lo spazio senza pensieri. Una goccia di crema nell’incavo della mano e alzo lo sguardo mentre con la destra inizio a percorrere il viso, la fronte, il collo, l’ovale. Mi sfioro la pelle, socchiudo gli occhi godendomi la seta che mi attraversa. Seguo le dita. Alzo lo sguardo e sono lì, di fronte a me. Sorrido distratta. Io. Dal profondo dell’anima sfugge un pensiero che non colgo. Lo guardo, lo seguo come un palloncino mentre si libera in cielo. È un sospiro: “come sono bella!”
Mi sfugge e lo ritratto. Mentre continuo a vedere il mio viso, e nell’ovatta del mattino me lo concedo! Sì. Sono bella. Non esteticamente. I miei difetti sono visibili a voi più che a me. Senza alibi. Solo io. Ma sono bella. Luminosa, struccata, appena sveglia. Bella. Perché non concederselo? Perché validare la nostra luce solo attraverso gli altri? Perché se sono passati 6 anni non posso concedermi di vedermi e sentirmi bella solo perché un altro uomo non ha occhi per guardare? Io sono io. Non ho bisogno di conferme per essere me. Sono bella, splendida, solare, gentile, intelligente, caparbia, introversa, volitiva, passionale, sincera, fuori dal gioco e dalle righe.
Tiziana Alma Scalisi
Voglio essere il luogo perfetto a cui tornare. Sarò quello squarcio di panorama che toglie il fiato dietro la curva. E resterò quel panorama anche se mai nessuno dovesse scovarmi
Felicità è addormentarsi sulle lenzuola fresche in un pomeriggio afoso abbracciata a un cuscino. Svegliarsi con il ventolino fresco sulle gambe e avere voglia di cioccolato fondente.
Legarsi i capelli e trovare sul divano i miei figli a parlottare con un libro in mano e la tv spenta. Felicità è dir loro: “vi amo così tanto che non mi basteranno le prossime 5 vite per potervi amare di più”
Felicità è trotterellare scalza sul balcone con in mano una tazza di caffè amaro e nell’altra un pezzo di cioccolato fondente.
Quando si diventa consapevoli, si impara anche ad ascoltare il proprio corpo. Troppe volte ho pensato di essere quella sbagliata dentro una relazione. Il tempo e il vuoto, il silenzio e l’ascolto mi hanno insegnato una lezione diversa. Rispondiamo a ciò che si manifesta. Un solo sguardo mi ha spogliato più di chi mi ha vista nuda. Una carezza sulla guancia apparentemente distratta durante un saluto, o una parola pensata e soppesata solo per me mi hanno fatto sentire viva più di mille acrobazie. E il mio corpo lo sa, vibro di ciò che mi fa vibrare. Distanza, distacco, indifferenza, calcoli, schemi mi stancano e alla fine quel senso di frustrazione e di mancato appagamento non ha nulla a che vedere con il fatto che io mi senta sbagliata. Non sono sbagliata, ma il mio corpo mi insegna più di quel che so. Vibra con ciò che lo fa vibrare. Come l’eco che ritorna e risponde e si espande all’infinito. Esistono relazioni che non sono mai state tali ma che mi sono più intime che mai. È la pelle che conosce la verità. Vibrando di echi lontani ricorda a sé stessa di essere vita.
Tiziana Alma Scalisi